Bond argentini, a che punto siamo?
Se ci chiedessero di esporre, con una sola parola, quale sia lo stato di salute dell’intricatissima vicenda che ha condotto tantissimi risparmiatori a investire in bond argentini, la risposta sarebbe che, attualmente, dalle parti di Buenos Aires si sta vivendo un vero e proprio disastro. Un disastro talmente evidente che l’American Task Force Argentina ha scelto di acquistare una pagina del Financial Times attaccando frontalmente il governo argentino dopo che lo stesso – due mesi fa – ha scelto di contrastare le decisioni assunte dal giudice di New York, Thomas Griesa, che ha di fatto sancito il default tecnico del Paese sudamericano per l’ottava volta nella sua storia, e per la seconda volta negli ultimi tredici anni.
La tensione tra le due parti ha quindi portato l’associazione americana che tutela gli investitori in titoli argentini a investire pubblicando sul quotidiano più importante del mondo finanziario americano un messaggio nel quale, vicino alla foto della presidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner, emerge chiaro il claim “Un modello di scorrettezza”.
Un’espressione non casuale: è stato lo stesso ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, alla fine dello scorso mese, a considerare l’Argentina quale la causa dei suoi mali. “Come si fa ad accusare gli altri di essere degli avvoltoi” – aveva affermato Schaeuble – “se in realtà sono gli stessi argentini a vivere da anni al di sopra dei propri mezzi? Non pagano i loro debiti, e per questa ragione il Paese è stato isolato dal mercato internazionale dei capitali”.
Ma come si è arrivati a tal punto? In seguito al default del 2002, l’Argentina optò per una ristrutturazione conducendo gli investitori a subire perdite secche del 70% di quanto investito. Il 7% degli investitori non accettò tuttavia l’accordo proposto da Buenos Aires, iniziando quindi una lunga causa giudiziaria per il pagamento senza sconti dei bond (all’epoca 1,3 miliardi, oggi 1,5 miliardi). La Corte Suprema ha dato ragione agli investitori irriducibili, condannando l’Argentina a pagare gli stessi: con soldi che, naturalmente, l’Argentina non ha. Di qui una nuova serie di scontri e ricorsi, e la pronuncia del default (questa volta, ricordiamo, tecnico) del Paese sudamericano.